In Bosnia i rappresentanti della Republika Srpska, capeggiati da Milorad Dodik, operano per ottenere la secessione da Sarajevo e sperano nel sostegno di Trump (oltre che di Putin). In Serbia da mesi sono in corso manifestazioni studentesche contro la corruzione del governo di Aleksandar Vucic. Non esagera chi paragona questi due Paesi a una “polveriera” pronta ad esplodere.

Intervista a Giorgio Fruscione

Politologo e analista dell’Ispi esperto di Balcani.

Il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik

La Bosnia Erzegovina sta attraversando la crisi più grave dalla fine del conflitto degli anni ’90 e, giorno dopo giorno, si fa sempre più concreto il rischio di un collasso istituzionale. La tensione tra la Republika Srpska (RS) – una delle due entità che compongono il Paese – e il governo centrale è giunta a un punto di rottura nelle ultime settimane, dopo la condanna a un anno di carcere del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, accusato di aver minato l’ordine costituzionale. La sentenza ha scatenato una reazione immediata da parte delle autorità della RS, che hanno respinto il verdetto e ordinato il ritiro delle forze di polizia di stato dal loro territorio, a maggioranza etnica serba.

L’escalation ha portato la comunità internazionale a rafforzare la presenza delle forze di peacekeeping, ma il rischio che la crisi sfugga al controllo cresce costantemente. A complicare il quadro le dinamiche geopolitiche globali: la Russia e l’Ungheria sostengono Dodik, mentre l’Unione Europea lo condanna fermamente. L’incognita, manco a dirlo, è costituita dagli Stati Uniti di Donald Trump, tornati “amici” di Putin: potrebbe essere la Casa Bianca il vero ago della bilancia della vicenda. La Bosnia Erzegovina si ritrova così al centro di un confronto che va ben oltre i confini nazionali.

Il nodo principale della crisi resta l’accordo di Dayton, che nel 1995 pose fine alla guerra ma lasciò il Paese in una paralisi politica cronica. Il sistema di condivisione del potere ha spesso visto la Republika Srpska sfidare le istituzioni statali, e l’attuale spinta di Dodik verso una maggiore autonomia, se non la secessione, ha portato la Bosnia a un punto critico. Se le autorità tenteranno di arrestare Dodik, il rischio di violenze potrebbe diventare reale, con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’intera regione.

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Parallelamente alla crisi bosniaca, la Serbia sta vivendo un’ondata di proteste senza precedenti. La mobilitazione, nata dalla tragedia del crollo di una pensilina alla stazione di Novi Sad, che il primo novembre scorso ha causato 15 vittime, si è rapidamente trasformata in un ampio movimento di contestazione contro il sistema clientelare del presidente Aleksandar Vučić.

Studenti, agricoltori, intellettuali e cittadini comuni si sono uniti in un’organizzazione orizzontale, priva di leader e simboli politici, ma determinata a sfidare il potere. Uno dei principali bersagli della protesta è la speculazione immobiliare, che negli ultimi anni ha radicalmente trasformato Belgrado, diventando il simbolo di una corruzione dilagante. Mentre il governo serbo tenta di minimizzare la portata delle proteste, il movimento continua a crescere, rivelando un malcontento profondo che potrebbe ridefinire il panorama politico del Paese nei prossimi mesi.

Insomma, Bosnia e Serbia tornano prepotentemente al centro dello scenario internazionale e non esagera chi paragona questi due Paesi a una “polveriera” pronta a esplodere. Fanpage.it ne ha parlato con Giorgio Fruscione, politologo e analista dell’Ispi esperto di Balcani.

Partiamo dalla Bosnia. È stato emanato un nuovo ordine di arresto per Milorad Dodik, il leader nazionalista serbo-bosniaco presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia. Come si è arrivati a questa decisione?

Milorad Dodik era stato già condannato a un anno di reclusione e a sei di interdizione dai pubblici uffici, lo scorso 26 febbraio, per aver limitato la pur legittima giurisdizione di Sarajevo nei territori della Republika Srpska. Dodik era infatti stato incriminato nel 2023 dopo aver firmato leggi che sospendevano le sentenze della corte costituzionale bosniaca e provvedimenti dell’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, Christian Schmidt. Ricordiamo che tale autorità venne istituita in seno agli accordi di Dayton del 1995 proprio allo scopo di supervisionare ed implementare le condizioni previste dagli accordi di pace che posero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina. Insomma, quello che ha fatto Dodik è stato sostanzialmente continuare ad operare per la secessione della Republika Srpska dalla Bosnia.

Il progetto di secessione ha la possibilità di concretizzarsi?

Sì e no, ma provo a spiegarmi meglio: la Repubblica Srpska nasce l’indomani della guerra e la sua esistenza è legittimata dagli accordi di pace di Dayton di trent’anni fa. Parliamo di un’entità a maggioranza serba che sostanzialmente ha sempre funzionato, nelle intenzioni delle autorità locali, come uno Stato nello Stato, che non ha mai avuto una grande affinità con le autorità centrali ma ha sempre sviluppato la sua autonomia. Questo sentimento di “indipendenza” è cresciuto col passare degli anni ed è stato alimentato dalla leadership di Dodik in particolar modo dal 2021, quando il presidente diede inizio ufficialmente a un progetto di secessione legale in aperto contrasto con il mandato dell’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, che all’epoca era Valentin Inzko e oggi è Christian Schmidt. Inzko aveva previsto una modifica del codice penale che introduceva il reato di negazionismo per chi negava il genocidio di Srebrenica, cosa che le autorità della Repubblica Srpska hanno fatto più volte e regolarmente.

Cosa è successo, poi?

Da quel momento è iniziato il tentativo di Dodik e dei suoi collaboratori di sottrarre competenze dell’autorità centrale statale di Sarajevo alla Repubblica Srpska. Tali mosse vanno contro la Costituzione bosniaca, però è altrettanto vero che l’entità ha sempre goduto di ampi poteri, di conseguenza si è creato una sorta di limbo istituzionale. Insomma, la secessione non è possibile de jure, ma è possibile de facto. L’attuale crisi istituzionale è più grave delle precedenti, se non altro in considerazione del mutato contesto internazionale, che è sicuramente favorevole alla leadership di Dodik.

Soldati della missione EUFOR in Bosnia

Soldati della missione EUFOR in Bosnia

Si riferisce al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e alla ritrovata amicizia con Putin?

Sì, ma facciamo un passo indietro. Dodik – e questo credo sia un caso più unico che è raro sul suolo europeo – è un leader che ha incontrato Putin sei volte dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e almeno il doppio dal 2014. Questi viaggi a Mosca sono avvenuti con il via libera di Belgrado, che è il vero custode delle relazioni con la Russia. Lo sottolineo perché è importante ricordare che i nazionalisti nei Balcani siano politicamente collegati e vicini alla leadership russa del presidente Vladimir Putin.

Questo significa che la Russia ha un ruolo nelle vicende degli ultimi anni in Bosnia?

No, la Russia adesso è troppo concentrata sull’Ucraina e su altre questioni per potersi occupare anche della Bosnia. Tuttavia Mosca cerca di trarre beneficio da questa fase di forte instabilità.

Anche l’arrivo di Trump gioca un ruolo un questa vicenda?

Il presidente serbo Aleksandar Vučić e il leader della Repubblica Srpska Dodik hanno sempre fatto il tifo per Donald Trump. Con il suo ritorno alla Casa Bianca, Dodik chiederà la rimozione di una serie di sanzioni che gli USA hanno in passato imposto alla sua persona e a soggetti a lui vicini. C’è poi in loro la speranza che l’amministrazione americana, così spregiudicata sui vari dossier internazionali, possa tollerare il processo di secessione avviato in Bosnia. In ultimo, visto l’allineamento tra Mosca e Washington, la speranza di Dodik è che l’amministrazione Trump voglia appoggiare quanto richiesto dalla Russia in sede ONU, ovvero delegittimare l’autorità dell’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina.

Mark Rutte in Bosnia

Per “puntellare” la situazione Mark Rutte, segretario generale della NATO, lunedì si è recato a Sarajevo; intanto l’UE ha aumentato i militari del contingente Eufor.

Sì. Ricordiamo che negli anni ’90 la guerra in Bosnia fu un banco di prova importante per la comunità internazionale per molti aspetti. Fu un intervento della NATO, e fu l’esordio di alcuni concetti di diritto internazionale come la pulizia etnica e il genocidio in Europa. Ci sono, insomma, delle responsabilità e degli obblighi a 30 anni di distanza da quel conflitto; per questo vi è sempre una grande prontezza nella reazione della comunità internazionale per quello che accade in Bosnia. Allo stesso tempo penso che il mutato scenario degli ultimi tempi faccia sì che quella della Bosnia non sia una priorità e che comunque prevalga l’elemento politico su quello geopolitico. Relativamente all’impegno internazionale ricordiamo che in Bosnia è presente la missione dell’Unione Europea, EUFOR, e che tale missione è stata recentemente rafforzata per far fronte a un eventuale deteriorarsi della situazione.

Intanto da mesi in Serbia sono in corso proteste contro il Governo del del presidente Aleksandar Vučić. La mobilitazione è nata dopo il crollo di una pensilina alla stazione di Novi Sad che, il primo novembre 2024, ha causato la morte di 15 persone. Ma quali sono le ragioni profonde di questa crisi?

Quelle in corso sono proteste che rappresentano sicuramente un unicum nella storia serba dal 2012, ovvero da quando si è insediato il governo del Presidente Aleksandar Vucic. Nonostante ci siano state diverse proteste negli ultimi anni, soprattutto dal 2020, queste sono le prime politicamente “trasversali”, portate avanti da una categoria sociale, ovvero gli studenti, contro cui Vučić non può operare la repressione classica dei regimi autoritari e liberali, quale il suo è. Sarà quindi difficile per il governo far fronte a queste contestazioni che – nonostante abbiano un carattere civico – mettono in difficoltà la leadership politica del Paese. La situazione andrà monitorata attentamente soprattutto domani, sabato 15 marzo, quando è previsto un grande raduno di tutte le componenti della protesta, con studenti che stanno arrivando – marciando a piedi – da tutto il Paese. Contemporaneamente, nello stesso luogo, si stanno radunando quegli studenti – o meglio, pseudo-studenti – allineati con il governo, che si fanno chiamare “studenti che vogliono studiare”, ma che il più delle volte non sanno neanche come sia fatto un libro.

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Insomma, in Serbia come in Bosnia la tensione è molto alta. Vi è il rischio che si torni alla violenza?

La situazione è molto delicata ed è da monitorare attentamente. Dopodiché occorre essere cauti per quanto riguarda i possibili scenari militari; per fortuna le armi, i budget e le risorse disponibili non sono paragonabili a quelli degli anni ’90. Questo però non significa che la tensione politica non possa aumentate notevolmente e sfociare sia in Serbia che in Bosnia in possibili violenze locali, anche gravi. Mi sembra che si vada verso un punto di non ritorno, sia dal punto di vista politico che sociale.

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