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L’avvertenza è la solita: bisogna interpretare con grande cautela i risultati delle Elezioni Regionali, prima di lanciarsi in valutazioni o sentenze sul quadro politico nazionale. È un principio che vale sempre, a maggior ragione quando si vota in regioni come Emilia Romagna e Umbria, che hanno storie, tradizioni e dinamiche del tutto peculiari. Detto ciò, non è operazione inutile provare ad analizzare i dati che arrivano dal voto umbro ed emiliano-romagnolo, perché sono diversi gli elementi di interesse.

A partire dall’affluenza alle urne, drasticamente in calo, secondo un trend che sembra inarrestabile. In Emilia Romagna è andato a votare circa il 46% degli aventi diritto, in Umbria il 52%: un calo, rispettivamente di 21 e 13 punti percentuali, che ha pochi precedenti nella storia repubblicana. È un elemento di grande preoccupazione per alcuni analisti, che vedono all’orizzonte il rischio di uno svuotamento dell’intero processo democratico. Una questione non di poco conto, soprattutto perché coinvolge differenti segmenti dell’elettorato e finisce per incidere inevitabilmente sulla “qualità” della nostra democrazia. Si è scritto tanto delle ragioni che portano una quota sempre maggiore di cittadini ad astenersi, quasi sempre parlando di disaffezione alla politica e sfiducia nei meccanismi di rappresentanza. Il vero problema è che non sembrano esserci ricette utili a invertire la rotta, che non vadano oltre la retorica del “ricostruire il legame con gli elettori che è alla base del funzionamento della democrazia rappresentativa”. Non parliamo, infatti, semplicemente di astensione consapevole e ragionata (che chi scrive considera un elemento importante dello stesso processo democratico), ma del risultato di una crescente sfiducia, figlia di anni di malgoverno e cinismo, di qualunquismo e disinformazione. Siamo di fronte a una crisi complessa, che richiederebbe cambiamenti profondi nel modo di comunicare, amministrare, rendicontare della politica. Cambiamenti che, diciamocela tutta, in pochissimi vogliono o sono in grado di portare a termine.

E allora, anche stavolta, l’astensionismo è un ombrello sotto cui ripararsi dopo una cocente sconfitta. Lo hanno fatto le candidate del centrodestra in Umbria ed Emilia-Romagna, così come i loro sponsor e sostenitori. Ma è un costume diffuso, adoperato spesso e volentieri anche a sinistra, proprio perché è sempre complicato stabilire chi sia stato più o meno danneggiato dal crollo dell’affluenza.

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La ragioni della sconfitta del centrodestra

Stavolta, comunque, l’analisi della sconfitta tocca a destra. E non sono messi benissimo, a giudicare dai retroscena pubblicati oggi dai giornali e sollecitati soprattutto da Palazzo Chigi. Vi faccio una stringata sintesi delle posizioni: Meloni dice che è colpa di Salvini (che ha insistito su Tesei ed è uscito dal seminato nella campagna elettorale in ER), i leghisti scrollano le spalle dicendo che in Umbria ed Emilia Romagna in fondo vince sempre il Pd, Forza Italia è contenta del proprio risultato. Tutte cose vere, almeno in parte, che restituiscono una certa delusione per aver interrotto il momento magico, confermando l’Umbria e magari avvicinandosi al centrosinistra nella regione in cui solo 5 anni fa “l’impresa” era sembrata possibile.

Le ragioni del flop sono diverse, parliamo comunque di aree governate per decenni da partiti di sinistra. È evidente, però, che il centrodestra non sia riuscito a mobilitare il proprio elettorato, neanche dove la contesa sembrava più aperta, in Umbria. Ha pesato la scelta di appoggiare, più o meno convintamente, la governatrice leghista uscente, molto criticata per alcune scelte strategiche sulla sanità e incapace di marcare quella discontinuità per cui era stata eletta nella scorsa tornata elettorale. Così come non sono serviti gli interventi di Meloni e Salvini negli ultimi giorni di campagna elettorale, apparsi piuttosto fuori focus e inutilmente bellicosi. In effetti, non ha pagato la scelta di alzare il livello dello scontro politico, strumentalizzando i fatti di Bologna, peraltro in zone dove è piuttosto radicata la coscienza democratica e antifascista. C’è un confine da non superare, tipo tollerare, giustificare o in qualche modo legittimare la sfilata delle camicie nere a Bologna.

Guardando ai dati, poi, l’analisi si fa particolarmente interessante. Perché Fratelli d’Italia continua il proprio consolidamento territoriale (in termini di eletti e peso politico) a spese di una Lega che sembra incapace di invertire una tendenza in atto ormai da anni, pur tenendo sostanzialmente rispetto alle Europee. Forza Italia, invece, registra un altro buon risultato, merito probabilmente del radicamento nei Comuni e del posizionamento politico “moderato” in una coalizione molto sbilanciata. Come si tradurrà questa ennesima conferma del consolidamento dei rapporti di forza all’interno della coalizione di governo, è la maggiore incognita per i prossimi mesi.

Il centrosinistra può davvero sorridere?

Dall’altra parte, si può festeggiare, ma con la giusta dose di cautela. Per aver rimesso le cose in ordine nel Centro e per aver riguadagnato agibilità in un momento decisamente molto complesso per l’opzione progressista, in Italia e non solo. Come ha scritto il nostro direttore, il centrosinistra ha vinto in tre regioni su sette, strappato Umbria e Sardegna al centrodestra, e ha dimostrato di poter essere competitivo nelle consultazioni territoriali, anche in un momento politicamente dominato da Giorgia Meloni. Un’iniezione di fiducia per la prossima tornata, che vedrà sfide fondamentali in Campania, Toscana, Veneto e Puglia (tra le altre).

Il problema è quando si scende nel dettaglio sul “come” è competitivo. La ricetta è tutto sommato semplice: un progetto di governo chiaro e dai confini ben definiti, candidature autorevoli e rappresentative del territorio, una coalizione che mette al primo posto l’obiettivo comune, una comunicazione efficace e diretta, calibrata sulla propria gente. È quello che è avvenuto in Emilia Romagna, dove era più semplice, ma anche in Umbria e Sardegna, partite diverse e difficili. Ed è quello che Elly Schlein auspica avvenga un po’ ovunque sui territori, per poi pensare al livello nazionale.

Le cose, però, sono molto più complicate. Non solo per la diffidenza tra i leader o le diversità ideologiche, politiche e programmatiche fra le diverse anime della coalizione (che pure dovrebbero contare non poco, almeno in un mondo ideale). Soprattutto perché questo schema risulta estremamente polarizzante e finisce con il favorire in modo chiaro un partito, il PD, che ha un radicamento maggiore sul territorio, una visibilità migliore sui mezzi di comunicazione e una leader “scelta” anche dall’opposizione (come bersaglio polemico, figura alternativa e via discorrendo). I dati delle ultime tornate elettorali sono impietosi e puniscono tanto il Movimento 5 stelle che i progetti centristi/liberali che scelgono di accodarsi a una coalizione chiaramente sbilanciata a sinistra (e che per questo favorisce invece Avs). Vincere o provare a farlo, perdendo voti e centralità, non è uno scenario auspicabile per Conte, alle prese con la difficile ricostruzione dalle fondamenta del Movimento 5 stelle. Non lo è nemmeno per Renzi, che ha anche il problema della “diversità sostanziale” con il progetto di Schlein. Un bel dilemma, ecco.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell’area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.

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