Il mondo è a caccia di nickel, rame, manganese, cobalto e terre rare per produrre chip e sviluppare tecnologie verdi, dalle batterie ai pannelli solari. I fondali oceanici, soprattutto nelle pianure abissali a profondità di 4-5mila metri, sono disseminati di questi metalli, contenuti in migliaia di miliardi di pepite scoperte dagli oceanografi già alla fine dell’Ottocento. Si tratta di noduli polimetallici, che in generale hanno le dimensioni di una grossa patata. La quantità totale di noduli sui fondali è stata stimata in 500 miliardi di tonnellate. La crescita dei noduli è uno dei fenomeni geologici più lenti: per crescere di circa un centimetro occorrono molti milioni di anni. La loro abbondanza può essere molto variabile, ma in alcuni casi ricoprono più del 70% del fondale. Una densità di interesse economico è stata scoperta in particolare in tre aree: nella zona centro-settentrionale dell’Oceano Pacifico, nel bacino del Perù e nell’Oceano Indiano. I depositi più esplorati e promettenti si trovano nella zona di Clarion-Clipperton, nelle acque internazionali tra il Messico e le Hawaii.
Le mire di Trump
E’ proprio su questa zona che ha puntato gli occhi Donald Trump: alla fine di aprile il presidente Usa ha ordinato di accelerare il rilascio delle licenze per i progetti di estrazione di metalli in acque profonde, nel tentativo di dare impulso a un settore nascente e di sottrarre alla Cina il controllo dei minerali critici. L’ordine esecutivo firmato a fine aprile è l’ultima mossa nella strategia di Trump di ampliare l’accesso degli Stati Uniti ai minerali critici, dopo gli accordi con Paesi come l’Ucraina e il Congo per avere accesso alle loro risorse minerarie. La più immediata beneficiaria dell’ordine esecutivo di Trump sarà The Metals Company, una società con sede a Vancouver e quotata al Nasdaq, che da tempo si batte per ottenere l’autorizzazione all’attività mineraria in acque profonde: il prezzo delle sue azioni è quasi raddoppiato nell’ultimo mese.
Nuove regole entro fine anno
Questa mossa rappresenta però una sfida aperta all’International Seabed Authority (Isa), con sede in Giamaica, i cui 170 membri includono Ue, Cina e Brasile, ma non gli Usa. La segretaria generale dell’Isa, Leticia Carvalho, ha replicato con decisione: gli Stati Uniti non hanno alcuna autorità per rilasciare licenze in acque internazionali. La Cina ha già messo in guardia contro qualsiasi azione unilaterale sui fondali marini, la cui risorse «sono considerate patrimonio comune dell’umanità». L’Ue insiste sul fatto che le norme dell’United Nations Convention on the Law of the Sea sono vincolanti anche per i Paesi che non l’hanno firmato, come gli Stati Uniti. Finora l’Isa si è rifiutata di consentire l’attività mineraria commerciale e ha rilasciato solo 31 contratti di esplorazione, anche se da dieci anni lavora a un regolamento per lo sfruttamento minerario dei fondali marini e Carvalho assicura che sarà finalizzato entro l’anno. Se la segretaria generale ha ragione, saremmo alla vigilia di un’era di sfruttamento dei fondali marini secondo regole concordate.
Rischi per ecosistemi marini
I biologi marini, però, hanno già messo in guardia sui possibili rischi di queste attività. Per estrarre i tesori minerari dagli abissi, infatti, bisogna entrare con pesanti macchinari in ecosistemi di cui sappiamo ancora pochissimo. Si tratta di dragare i fondali oceanici, completamente al buio e con una pressione 500 volte maggiore rispetto alla superficie, calando da grandi navi dei tubi collegati a bulldozer teleguidati, che rotolerebbero sui fondali aspirando noduli, per pomparli in superficie. Non è difficile immaginare l’effetto sulla fauna e la flora marina, una miriade di specie che in parte nemmeno conosciamo. Raschiare il fondale oceanico potrebbe distruggere le colonie di polpi, spugne e altre specie che vivono in acque profonde, causando danni simili a quelli della pesca a strascico. L’attività mineraria, inoltre, produrrebbe pennacchi di sedimenti, che potrebbero risultare tossici. L’inquinamento acustico e luminoso potrebbe compromettere intere comunità di acque profonde, che si sono adattate alla mancanza di luce. Douglas McCauley, biologo marino dell’Università della California, descrive gli abissi oceanici come «uno degli ecosistemi meno resilienti del pianeta». Altri esperti ribattono invece che l’attività mineraria sui fondali oceanici sarebbe sicuramente meno inquinante e causerebbe meno danni di quella condotta in superficie.
Nuove scoperte sull’ossigeno nero
L’ultima novità sul piano della ricerca scientifica è che i metalli sparsi sui fondali oceanici produrrebbero il cosiddetto “ossigeno nero”, tramite una corrente elettrica capace di scindere gli atomi di idrogeno e ossigeno contenuti nell’acqua di mare: gli scienziati guidati da Andrew Sweetman, della Scottish Association for Marine Science, hanno scoperto infatti la presenza di ossigeno durante l’esplorazione a oltre 4mila metri di profondità nella Clarion–Clipperton Zone. Una scoperta sorprendente, perché a quelle profondità l’ossigeno non ci dovrebbe essere. «Attraverso questa scoperta, abbiamo generato molte domande senza risposta e abbiamo sollevato molti dubbi su come trattare questi noduli, che sono in pratica batterie contenute in un sasso», ha ammonito Sweetman. Gli oceani producono circa la metà del nostro ossigeno, attraverso organismi che, come sulla terraferma, utilizzano la fotosintesi. Ma a queste profondità la mancanza di luce esclude la possibilità di un’origine fotosintetica dell’ossigeno rilevato dal team. Da qui la spiegazione che l’ossigeno nero sia prodotto dai noduli con l’elettrolisi dell’acqua di mare. Questa scoperta mette in discussione la consolidata teoria secondo cui tutto l’ossigeno sarebbe generato dalla fotosintesi, sollevando nuovi interrogativi su come abbia avuto origine la vita negli oceani.