La cena di ieri sera a Santa Marta è stata certamente rapida vista l’ora che si era fatta per i tempi lunghi della procedura, ma è stata comunque l’occasione per confrontarsi sull’esito del voto, da cui saranno emersi i “candidati” e le loro potenzialità. La mattina del secondo giorno iniziano le convergenze sui nomi più forti, tra cui probabilmente spiccano uno o due “curiali” – le maggiori attenzioni si concentrano su Pietro Parolin, già Segretario di Stato, cui si potrebbe affiancare l’americano Robert Francis Prevost – e forse un altro porporato già nel governo di Francesco, e alcuni cardinali diocesani, i “pastori”, tra cui forse un italiano – Matteo Zuppi o Pierbattista Pizzaballa, ma anche il francese Jean Marc Aveline e più distante anche l’ungherese Peter Erdo – e un asiatico. Il nome che è emerso negli ultimi due giorni, a seguito del suo intervento alle congregazioni generali che è stato molto ascoltato e ha fatto impressione, è quello di Pablo Virgilio David, filippino, 66 anni, vescovo di Kalookan, presidente della conferenza episcopale del suo paese già al secondo mandato, vice della conferenza asiatica, poliglotta, cardinale di fresca nomina. Potrebbe essere la “carta asiatica”, l’opzione di una chiesa che guarda a oriente perseguita da Francesco, che comunque non tutti hanno condiviso.

L’indicazione delle Congregazioni: un “pastore”

 

I cardinali nelle Congregazioni hanno delineato il profilo del futuro Papa, soprattutto che sia un pastore, ma anche che possa portare avanti il processo di riforma. Quindi le possibilità si allargano, e questo potrebbe in effetti tenere la rosa ancora abbastanza larga, tanto da non poter raggiungere un accordo già alla pausa di giovedì e quindi arrivare all’elezione nel pomeriggio. L’idea di un conclave veloce – due giorni – è rimasta prevalente, ma solo perché così è stato nelle due edizioni precedenti. Ma le condizioni erano diverse: nel 2005 di fatto Joseph Ratzinger era il papabile più forte la “campagna” a suo favore – anche contro la sua reale volontà – era iniziata da mesi, quando le condizioni di Giovanni Paolo II si facevano sempre più precarie. L’unica alternativa che emerse era quella del cardinale Carlo Maria Martini, candidato dei riformisti, ruolo dal lui stesso sempre respinto. In quel conclave fu tuttavia l’altro gesuita, Jorge Mario Bergoglio, a prendere 40 voti, e fu lui a dire a chi lo votava di indirizzare il consenso di Ratzinger. Nel 2013 i nomi forti erano quelli dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola e del canadese “curiale” Marc Ouellet, che presero voti, a cui si affiancò da subito Bergoglio, che poi fu eletto nel pomeriggio del secondo giorno.

La soluzione è tutta dentro il campo progressista, maggioritario

Quindi se anche giovedì 8 maggio non si arrivasse all’elezione il ruolo degli outsider, come David appunto, potrebbe prendere il largo, condensando i voti dei riformisti, che sono in larga maggioranza. Infatti l’analisi del Sacro Collegio rivela che i progressisti, sulla linea della continuità con Francesco, sono in larga maggioranza, e quindi è in quel “campo” che va cercata la soluzione, mentre i conservatori non hanno comunque i numeri, ammessi che ci sia una regia in grado di coalizzare una minoranza di blocco, cui servirebbero almeno 50 voti (visto il quorum dei due terzi, 89 voti). Si tratta di calcoli e ipotesi mutuate anche dalle esperienze dai parlamenti degli Stati e il Conclave è certamente una situazione molto diversa, e questa volta lo è ancora di più, vista la grande presenza di porporati che arrivano da realtà ed distanti dalle “pratiche” di Curia, cui erano decisamente più abili cardinali che ormai per età sono fuori dalla Cappella Sistina.

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