Storie Web venerdì, Dicembre 13
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Antilai Sandrini si è raccontata in esclusiva ai microfoni di Fanpage, raccontando il mondo del breaking e cosa rappresenta. Dalla “musa” Michael Jackson alle Olimpiadi di Parigi, un viaggio attraverso le mille sfumature della breakdance, “che resta più di un banale sport: è un’arte”

Finalmente si è iniziato a parlare di breakdance e finalmente è sbarcata nel massimo evento sportivo mondiale, facendosi conoscere da tutti: le Olimpiadi. L’Italia, a Parigi, è stata rappresentata da Antilai Sandrini che si è raccontata a Fanpage.it, spiegando cosa significhi davvero fare breaking: “Una rappresentazione che è arte che va oltre il semplice evento sportivo. Dove l’unica regola che conta è essere se stessi”.

Antilai Sandrini, che gareggia per il gruppo sportivo Fiamme Azzurre, è stata il volto della breakdance italiana a Parigi, in un’avventura unica e ricca di contraddizioni: “Ero combattuta. Da un lato felice che ce l’avessimo fatta, dall’altro no per vedere il breaking omologato da arte a banale sport”. In un contesto in cui non sono mancate le polemiche, per la controversa prestazione dell’australiana Raygun. “Lei non ha commesso errori. L’errore è stato dei media che hanno provato a relegare la breakdance, sminuendola su un episodio”. Ed è anche la rappresentante attuale del movimento breaking italiano nel mondo: “Sì, una sorta di pioniere, prima di me c’era davvero poco. Ora mi riconoscono e questo fa piacere, anche se in Italia c’è un problema di fondo: manca la vera cultura hip hop”.

Antilai, iniziamo dal tuo nome: non solo particolare, ma davvero unico. Da dove nasce?
“Un nome inventato da uno scrittore amico di famiglia, appassionato dei Paesi dell’Est. Nella realtà non esiste ed è piaciuto tantissimo a mia mamma che ha deciso di darmelo. Ha anche un significato particolare, “figlia del vento” e così mi chiamo in questo modo anche se sono nata in Toscana, i miei sono italiani e vivo in Friuli da anni”.

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Papà è stato il “colpevole” del tuo amore per il breaking, giusto?
“Devo dire un insieme tra mia mamma e mio papà. Mia mamma mi ha introdotto nello sport facendo fare ginnastica artistica per una decina d’anni anche a livello agonistico. Poi, però cercavo qualcosa che mi appartenesse un po’ di più, quindi ho cambiato, quasi per caso. Mio papà lavora in strutture alberghiere, come hobby fa il dj e suona in giro per locali e così una sera, mettendo musica si è messo a ballare”.

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Dunque, il classico colpo di fulmine?
“Sì, quando ho visto papà, anche se è sempre stato un autodidatta, mi ha colpito anche se non sapevo per nulla ballare. Tieni presente che io non ho mai avuto feeling col ballo in generale, in discoteca per capirci restavo in disparte, non mi alzavo mai dalla sedia. Anche se da sempre io amo la musica e avevo scoperto da poco Michael Jackson che per me è stata la chiave finale”.

Cosa c’entra il Re del Pop con la tua passione per il breaking?
“Non l’ho vissuto direttamente, ma quando è morto tutti parlavano solamente di lui, il telegiornale, la gente,  in famiglia… sembrava non ci fosse altro argomento, che il mondo si fosse fermato e non fosse accaduto più nulla. Così, mi incuriosii: ma chi è? E così iniziai a vedere i suoi video e subito a imitarne i passi, le mosse: quando l’ho visto mi sono detta. Ok, io voglio fare quello. Le prime cose che ho imparato in assoluto erano le sue coreografie. Passavo le giornate a vedere e rivedere le sue mosse, in slow motion, provavo e riprovavo”.

E poi che cosa accadde?
“Avevo 12-13 anni e da lì mio papà mi ha appoggiato finché ho chiesto a mia mamma di cercarmi un corso di breaking, anche se ero preoccupata perché è una disciplina particolare e non credevo esistessero. Un’altra coincidenza: mia mamma, che insegna alle superiori, si imbatté per caso in un volantino scolastico e così ho provato un corso, per pura curiosità e non mi sono più fermata”.

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Tu hai praticato anche arti marziali, ci sono affinità con il breaking?
“Tante mosse e movenze sono state prese dalle arti marziali e molti ballerini si sono ispirati all’Oriente, soprattutto perché anche nel breaking mentre si balla si rappresenta sempre qualcosa. Io personalmente pratico wushu, iniziato proprio nello stesso momento in cui ho iniziato breaking anche senza sapere di questa influenza. Avevo iniziato le arti marziali solo perché mia sorella me lo aveva chiesto di farlo con lei. Poi col tempo, ho scoperto le varie sinergie tra le due discipline e questo mi aiuta moltissimo anche tutt’ora: quando ballo provo a creare e a portare elementi delle arti marziali nella mia esibizione”.

Finalmente oggi il breaking è arrivato a Parigi: quando l’hai saputo cos’hai pensato?
“E’ stato strano perché io mi sono sempre detta una cosa: mai dovesse accadere di andare alle Olimpiadi mi sarebbe piaciuto farlo con la disciplina che mi piace di più tra quelle fatte. Ma mi ripetevo anche: figurati, il breaking alle Olimpiadi non ci andrà mai. Poi quando l’ho scoperto sono rimasta scioccata, mi sembrava quasi una fake news. Da un lato ero felice, perché sapevo che avrei fatto di tutto per esserci e sapevo già che ce l’avrei fatta dentro di me. Dall’altro, ero titubante perché ascoltavo moltissimo anche gli “OG”, ovvero l'”old generation” del breaking, i primi ballerini che hanno portato la cultura hip-hop in Italia e nel mondo. Avendo portato l’imprinting del breaking ovunque, ascoltavo moltissimo il loro pensiero: per loro non era uno sport vero e proprio ma un’arte”.

E alla fine?
“Sono stata combattuta a lungo su come prendere la notizia ma alla fine mi son detta: sai che c’è? Personalmente è una figata, è un’occasione perché possa diventare qualcosa di davvero grande e importante. E’ vero che non è proprio uno sport, ma è un momento unico”.

Perché dici che non è uno sport? Sacrifici, rinunce, disciplina allenamenti ci sono anche nel breaking
“Io personalmente ho sempre fatto così, mi sono da sempre allenata perché arrivo da altre discipline, ma la maggior parte dei ballerini ha dovuto imparare questo aspetto perché la breaking nasce innanzitutto da una cultura diversa, dalla passione, dalla voglia di esprimere se stessi. Con l’inserimento olimpico c’è stato un upgrade, settandolo come un vero e proprio sport, con tanto di preparazione e allenamento, tanto che molti ballerini si sono improvvisati tecnici di altri. Da un punto di vista fisico è un vero e proprio sport: usiamo tutto il fisico in tutti i modi possibili. Però quello che esprimiamo è più profondo, è proprio arte, senza regole né regolamenti. Ed era questa la più grande paura di tutti noi con il breaking alle Olimpiadi”.

In che senso non avete un regolamento?
“Nel breaking non ci sono elementi obbligatori di alcun genere proprio perché lo si fa cercando il movimento che più ci piace. C’è uno studio personale, di gusto: ci sono movimenti, ma non ci sono errori. L’unico errore che c’è è non essere te stesso”.

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Quando hai davvero raggiunto Parigi, il tuo primo pensiero?
“Sicuramente la prima cosa che ho pensato e detto è : grande Anti ce l’hai fatta. Mi sono sentita orgogliosa e fiera di me e ho pensato alla mia famiglia che mi ha aiutato e supportato, anche i miei insegnanti, ero felice per me  e per loro”.

E cosa ti porti dall’esperienza di Parigi?
“Beh io ho imparato tante cose grazie alle Olimpiadi, sia positive che meno. Pensavo ad esempio che il percorso per arrivarci fosse molto più semplice e invece è stato più difficile del previsto. Tanti alti e bassi e tante lotte non solo sul campo, in competizione durante le esibizioni. Anche fuori, con alcune persone che avevo intorno e mi hanno messo in difficoltà. Ma il fatto che ne sia uscita comunque vincitrice, perché alla fine non solo ho partecipato ma ho fatto del mio meglio è stata una enorme soddisfazione. Ho iniziato a lavorare ad esempio molto sulla tenuta mentale e non solo fisica, capendo quanto è fondamentale la preparazione psicologica: questa esperienza mi ha reso più forte”.

La polemica sulla esibizione di Raygun. Da dentro come l’avete vissuta?
“Personalmente in competizione ti devo dire che non mi sono nemmeno accorta di quanto aveva fatto la ragazza. Ero totalmente concentrata su di me e su ciò che dovevo fare io. Lei l’ho vista dietro le quinte, prima della gara, è stata molto carina e mi sembrava sinceramente serena. Poi c’è stato trambusto via social per quanto accaduto e a livello personale mi è dispiaciuto perché so che tutti hanno provato a fare del loro meglio in quel frangente, lei compresa. E’ stata se stessa, ha raggiunto ciò che si era prefissata per il suo livello, non ha commesso alcun errore”.

Dopotutto anche Raygun è arrivata alle Olimpiadi qualificandosi, non per caso.
“Certamente, ma so anche di tanti atleti e ballerini australiani che non hanno partecipato alle qualificazioni per le Olimpiadi e non hanno voluto intraprendere un percorso di questo tipo volutamente e forse decisamente più forti di lei. Proprio perché hanno rifiutato l’idea del breaking in un contesto sportivo”.

Ed il fatto che se ne sia parlato e ancor oggi ne stiamo parlando fa bene alla breakdance?
“Sì e no, personalmente vorrei che si parlasse solamente bene della breakdance. L’errore generale è stato volersi focalizzare proprio su quell’aspetto, riducendo la presenza del breaking a quel singolo episodio. C’era tanta gente più forte, interessante, una competizione da seguire e gustarsi. Molte persone non hanno colto il vero senso di ciò che facciamo, hanno voluto sminuire così tutto questo, la nostra ricerca continua, quotidiana dell’arte che è una scelta di vita, profonda. E non capisco il perché”.

Ma Raygun effettivamente non ha fatto mosse alquanto goffe o fuori contesto?
“Nessun movimento è un gesto fine a se stesso ed il fatto che le persone non lo comprendano dispiace, fa parte di uno stile personale, di una ricerca anche profonda. Ciò che fa male è che si sia parlato del breaking sotto questo profilo, mentre si dovrebbe raccontare ciò che davvero rappresenta. Spiace che se ne sia discusso in modo superficiale senza vedere la breakdance più per quello che è realmente rispetto a quanto i media hanno voluto far vedere. E poi lo scopo finale è proprio quello di riuscire a creare qualcosa di unico, personale, che prima non c’era”.

Come definisci il tuo stile? Sei riuscita a creare qualcosa di unico?
“Io cerco di essere sempre unica, un po’ come tutti e mi piacerebbe che le persone mi riconoscessero solamente dalla mia ombra. Non è solo una questione di mosse o di passi, è un universo che attraversa lo stile, l’estetica, ci sono tante cose che costruiscono la tua figura. Personalmente sì, penso di avere nel tempo trovato delle skills, delle mosse che mi rappresentano e vorrei riuscire ancora di più a esprimere quello che sono io, soprattutto rimanendo se stessi”.

Cosa ti porti dietro dell’esperienza delle Olimpiadi?
“Mi ha insegnato a conoscermi ancora di più di prima, mi ha aiutato nel percorso. So ora che sta uscendo molto più di prima quello che sono io nel mio modo di ballare, di creare, di esprimermi: finalmente ho preso coscienza che ho qualcosa dentro, ma voglio di più anche se le critiche ci sono e ci saranno sempre”.

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E come reagisci ai momenti difficili? Hai mai pensato: “ma chi me lo fa fare”?
“L’ho vissuto per alcune competizioni quando non ero d’accordo sui giudizi finali. Ma sapendo che sono situazioni soggettive so perfettamente che ci saranno sempre e con questo aspetto sto iniziando a far pace con me stessa. Io credo molto nelle energie dei posti, delle persone, positivi e negativi e in alcuni momenti mi sono chiesta perché fossi in quel determinato posto in quel momento, a fare quella competizione che non mi andava soddisfazione. Poi mi ripeto la cosa più semplice: io ballo perché mi fa star bene,  mi piace, il resto scivola via”.

Il momento invece più bello fin qui che hai vissuto?
“Ho fatto tantissime competizioni, è difficile sceglierne una, ma mi ricordo ogni volta che perdo un po’ il focus quelle in cui mi sono sentita libera, senza pregiudizi, fiera di essere me stessa al di là dei risultati finali. Quello status mentale l’ho trovato solo in un paio di situazioni, tra cui il Mondiale in Corea”.

Com’è andata? Perché lo ricordi in modo particolare?
“Sono arrivata quinta, ma è stato proprio il modo in cui ho approcciato a quella competizione che ha fatto la differenza: da quando ho iniziato fino alla fine in Corea ero in quel mood fantastico, non mi è mai più accaduto. Spesso mi dico come ritrovare quel momento in particolare e sto lavorando tantissimo per ricostruirlo ogni volta e ricercarlo. Quindi ora in ogni competizione mi ci avvicino sempre di più a quella condizione e in tutte rivivo a tratti quei momenti”.

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Quanto incide allora il lavoro e l’allenamento mentale?
“Ho scoperto che tutto influenza tutto. Prima pensavo che fosse solamente necessario allenarsi per poter raggiungere e restare a certi livelli: se va bene l’allenamento va bene la competizione. Non è così: se va bene la tua vita, se stai bene a casa, se stai bene a lavoro, se hai delle belle persone che sono intorno a te. Sono tantissimi gli elementi che ti permettono di essere te stesso”.

Purtroppo però Parigi 2024 per te rischia di essere una prima e unica volta: a Los Angeles 2028 la breakdance è stata tolta. Amarezza?
“No, assolutamente. Io in realtà sono soddisfatta di quello che ho fatto e con il senno di poi ho capito cosa mi possa essere mancato. Io mi conoscono molto bene personalmente e ho sempre fatto dei buoni piazzamenti ovunque e mi è dispiaciuto a Parigi non riuscire a fare altrettanto. Per il resto non ho rammarichi, sono contenta che ci siano state, mi hanno dato tantissimo”

Ma se Antilai dovesse scegliere, il breaking alle Olimpiadi: sì o no?
“Io resto in mezzo. Il fatto che le abbia disputate è sintomo che sono a favore, ma dopo che le ho fatte mi restano dei dubbi”.

Per quale motivo?
“L’evento in sé è stato fantastico, bellissimo. Se parlassimo solamente delle Olimpiadi è una esperienza che dovrebbero vivere tutti almeno una volta perché è meravigliosa. Il percorso per arrivarci è stato invece duro e non è per tutti: sinceramente non so se sarei disposta un’altra volta a dedicarmi totalmente a questo con le rinunce che comporta”.

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Com’è rappresentato il movimento italiano del breaking nel mondo?
“Ultimamente sta crescendo, ci sono molti ragazzi che stanno iniziando ad alzare il livello e sono contenta perché quando ho iniziato io anni fa non c’era quasi veramente nulla. In parte mi sento anche un po’ un esempio e mi piace: prima di me non c’era granché in Italia, io ho sempre guardato all’estero e abbiamo solamente un punto di riferimento in Italia, The NextOne [pseudonimo di Maurizio Cannavò, breaker, coreografo e ballerino, ndr]. Lui ha fatto la storia, l’unico b-boy di riferimento, il nostro vero diamante ed è l’unico nel mondo ad essere riconosciuto”.

E tu?
“Io sto cercando di dare del mio meglio e posso dire con fierezza di essere conosciuta abbastanza nel mondo della breakdance. Spero che negli anni a venire insieme ad altri cresca il livello anche se in Italia il problema più grande è la mancanza di mentalità e di cultura hip hop: io ho avuto la fortuna di viaggiare tanto, ho preso tantissimo dai ballerini americani, ho avuto le basi atletiche della ginnastica, ho conosciuto mentalità differenti e il mio percorso è stato relativamente breve. In Italia ci sono persone che vivono il breaking ma le devi ancora cercare: se le trovi ok, altrimenti per molti il cammino diventa difficile”.

Sei stata ospite anche di trasmissioni TV conosciute: come hai vissuto questo momento di notorietà?
“Si mi hanno chiamato a “Chissà chi è?” [Programma condotto sul 9 da Amadeus. ndr] e ho fatto una piccola esibizione. In realtà non è la prima volta e mi diverto sempre in queste circostanze. Ovviamente ero il personaggio facile da scoprire… ero la star della breakdance”

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A proposito, com’è il tuo rapporto con la notorietà?
“In realtà a me piace vivere come ho sempre vissuto, mi piace essere come ero cinque anni fa. Ovviamente cresciuta certo, ma non mi piace il ruolo di star. All’inizio è stato davvero strano, per qualche verso anche complesso gestire le situazioni: le interviste ad esempio, erano imbarazzanti, non sapevo se dicevo cose corrette, se andava bene. Col tempo l’ansia è passata, ho imparato a gestirla e mi fa pacere”.

Un aneddoto?
“Una volta non mi ricordo in quale aeroporto, all’improvviso un ragazzo mi ha fermato e mi ha detto: “Tu sei Antilai”. Dentro di me mi sono chiesta: ma ci conosciamo? Come fa a sapere chi sono? Poi alla fine mi ha spiegato che mi aveva visto alle Olimpiadi e solo lì ho realizzato, in effetti…”.

Anche perché poi sei molto attiva sui social, come li vivi?
“In realtà mi piacciono molto, carico e pubblico tanti video perché li considero uno show. Mi piace esibirmi, ballare davanti alla gente, intrattenere perché è una parte di me. Quindi lo faccio perché mi piace davvero, trovare un outfit, creare un trend, unire il breaking ad altri argomenti. Insomma, sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, mi diverte”.

E da grande cosa farai?
“Continuerò a ballare. Ho già tante idee e tanti sogni e prima o poi li realizzerò con la danza. Poi da sogno nasce sogno, ma non cambierò strada. Se l’ispirazione di tutto questo è stata Michael Jackson, la risposta non può che essere più chiara di così: ballare e ballare. Magari farlo per altri artisti, dando messaggi importanti, costruire qualcosa di grande col ballo”.

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