Storie Web venerdì, Marzo 21
Notiziario

Quando Eugenio Marinella apriva per la prima volta le porte del suo negozio di 20 metri quadri sulla Riviera di Chiaia, la Belle Époque aveva ancora solo due giorni di vita. Era il 26 giugno 1914, e se gli echi degli scontri della Settimana rossa che aveva agitato l’Italia si erano appena sopiti, 48 ore dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe fatto deflagrare la Prima Guerra Mondiale. Da quella mattina d’estate, però, il negozio di don Eugenio avrebbe sempre offerto un rifugio di bellezza per i gentlemen che volevano abbigliarsi “all’inglese”, all’epoca sinonimo di suprema eleganza.

Matilde Serao sul «Mattino» scrisse che «i nostri viveurs vi troveranno articoli inglesi esclusivamente modellati per la casa come camicie, cravatte, bretelle, fazzoletti, bastoni, ecc. ecc., tutto di ultimissima moda». C’erano gli impermeabili Aquascutum, i profumi Floris e Penhaligon’s, gli ombrelli Brics, le scarpe J&W Dawson, le cravatte. Nel manuale The Plimco Companion of Fashion, uno degli innumerevoli aneddoti dedicati all’arbiter elegantiarum britannico per eccellenza, Lord Brummel, riporta come ogni mattino il suo valletto scendesse le scale traboccando di cravatte sgualcite, che definiva «i nostri tentativi falliti». E di tutto quel ricco catalogo, alla fine sarà proprio quel fondamentale accessorio, discendente del tessuto che le milizie croate nella Guerra dei Trent’anni portavano al collo, a fare la fortuna dei Marinella.

Il negozio E. Marinella a Napoli

Centoundici anni dopo, le cravatte di twill di seta nate a Napoli vestono il collo di celebrità di tutto il pianeta, imprenditori e politici in primis. Fu Enrico de Nicola, il primo presidente della Repubblica, napoletano, anche il primo a regalare scatole di cravatte Marinella alle personalità in visita, abitudine proseguita e implementata da Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi, fino all’ultimo G7 Cultura.

Oggi, allo stesso indirizzo inondato di sole, profumo di mare e di caffè che viene dal bar accanto, non di rado si forma una fila per comprare le cravatte dei Marinella, che di generazione in generazione si tramandano il piacere di accogliere persone più o meno celebri con immancabile cortesia e affabilità. Il testimone è ora in mano a Maurizio Marinella, nipote di Eugenio, che da qualche anno lo condivide con il figlio Alessandro. Trent’anni il prossimo 25 aprile, Alessandro è dunque il volto della quarta generazione della famiglia, «ma è un po’ come fossi la seconda, perché fino a mio padre la nostra formula era rimasta la stessa», spiega. Naturalmente incline al sorriso e dallo sguardo che rivela una chiarezza di visione e intenti mai sconfinanti nella presunzione, Alessandro fa parte di quei giovani imprenditori alle prese con importanti eredità e con la complicata sfida di farle evolvere preservandone l’identità. In realtà le cravatte non erano il suo sogno da bambino, più propenso a fare lo chef o lo psicologo. Dopo gli studi in economia aziendale a Napoli e i master all’estero, è proprio un altro sorriso, quello del padre, a portarlo verso il negozio di famiglia: «Rientrava a casa sempre felice, anche se stanco, e questo mi colpiva molto – ricorda –. Sono cresciuto fra le sete, da bambini ci giocavamo a rubabandiera».

Alessandro Marinella con il padre Maurizio

Anche grazie a lui da laboratorio artigianale per appassionati, Marinella si sta trasformando in un’azienda che veleggia verso i 18 milioni di fatturato, con una settantina di dipendenti e un team tutto dedicato al digitale, negozi in Italia, a Londra e Tokyo, apprezzata anche in Africa e che punta ad approdare negli Stati Uniti, ma saldamente, inestricabilmente napoletana: «La nostra identità è fatta di classicismo inglese e sartorialità napoletana. Non può che continuare a fiorire da qui», prosegue. C’entra anche Donald Trump in questa affermazione. Su una parete del negozio c’è una sua lettera incorniciata, fra le tante di altre celebrità. Quando fu recapitata Alessandro non era ancora nato, ma ama molto raccontare questa storia: «All’epoca Trump era un imprenditore di successo, ma non così noto in Italia. Scrisse a mio nonno Luigi e a mio padre per invitarli ad aprire una boutique all’ultimo piano della Trump Tower a New York. Doveva essere tutto a carico nostro. I miei comprendevano l’opportunità, ma si chiesero come avrebbero potuto portare le sarte lassù… Allora mio nonno disse una cosa che è diventata cruciale per noi, cioè “dobbiamo dimostrare al mondo che si possono fare grandi cose non solo partendo da Napoli, ma soprattutto restando a Napoli”».

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