La gip di Milano ha chiesto alla Corte costituzionale di stabilire se il suicidio assistito possa essere concesso anche quando il paziente rifiuti il supporto dei macchinari “non perché inutile, ma perché espressivo di accanimento terapeutico e non dignitoso per il malato”. Marco Cappato, indagato, ha applaudito a questo nuovo rinvio alla Consulta.a.

La Corte costituzionale dovrà decidere sul suicidio assistito un’altra volta e al centro della vicenda c’è sempre Marco Cappato. Mentre nei prossimi giorni è attesa la decisione della Consulta sulla vicenda di Massimiliano Scalas, che nel 2022 fu accompagnato a morire in Svizzera da Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese (il governo italiano si è costituito in giudizio), ieri è arrivata una pronuncia simile da parte della gip di Milano Sara Cipolla. In merito a un altro processo che vede l’ex deputato indagato per due casi di fine vita, la gip ha sospeso il giudizio e rinviato la questione al giudice costituzionale. Il punto fondamentale è sempre lo stesso: viene chiesto alla Corte costituzionale di chiarire se il requisito della dipendenza da macchinari “salva vita” per accedere al suicidio assistito sia discriminatorio, cioè violi o meno la Costituzione.

La storia di Romano ed Elena Altamira

Il processo rinviato ieri alla Corte costituzionale riguarda le vicende di Romano N. e di Elena Altamira, entrambi deceduti volontariamente in Svizzera con l’aiuto di Marco Cappato. Il primo, Romano, aveva 82 anni ed era colpito da una forma grave di Parkinson. Elena, invece, 69 anni, era una malata terminale di cancro. Sull’irreversibilità delle loro malattie, una delle quattro condizioni poste dalla Consulta successivamente al “caso dj Fabo” per accedere al suicidio assistito, non c’era nessun dubbio, così come sul fatto che le loro patologie procurassero “sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili”. Quanto al requisito della libertà e consapevolezza delle loro decisioni, la moglie di Romano aveva così riferito ai pm in tribunale: “Lui diceva di essere stato fortunato, di aver avuto una vita lunga e serena e che non riteneva di prolungare con ulteriori sofferenze”. Mentre il marito di Elena parlava così di sua moglie: “Ricordo che mi chiese, come unico regalo in 50 anni di matrimonio, di non contrastare la sua decisione e di rispettarla”.

Rimaneva l’ultima condizione, da sempre la più problematica in casi come questi: l’obbligo che la persona sia “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale“. Questo requisito non era sussistente nel caso di Elena, che aveva rifiutato di essere supportata da macchinari nelle sue funzioni vitali, ed era più sfumato nella situazione di Romano, che accedeva ad alcune forme di sostegno vitale, ma si diceva consapevole che nessuna terapia avrebbe potuto migliorare la sua condizione.

Perché la Consulta si esprime ancora sul suicidio medicalmente assistito: cosa deciderà nella sentenza

Marco Cappato, dopo aver accompagnato i due pazienti in Svizzera, si era autodenunciato. E la Procura aveva deciso di non chiedere la sua condanna. Con un’interpretazione estensiva della sentenza della Consulta, i due pm avevano infatti ritenuto che il malato terminale potesse scegliere di essere aiutato a morire anche quando non attaccato a macchinari che lo tengono in vita, se questo tipo di trattamento rappresenti per lui solo “accanimento terapeutico”. Dunque, chi lo aiuta non è punibile.

Cosa ha chiesto la gip di Milano alla Corte costituzionale

La gip di Milano ha però voluto compiere un passo ulteriore. Deve essere la Corte costituzionale a spiegare meglio che cosa intenda con “trattamenti di sostegno vitale”. E soprattutto a stabilire se la fattispecie di suicidio assistito possa applicarsi nei casi in cui il paziente rifiuti il supporto dei macchinari “non perché inutile, ma perché espressivo di accanimento terapeutico secondo la scienza medica e non dignitoso secondo percezione del malato”.

Marco Cappato ha voluto far notare il tempismo di questa pronuncia: “La decisione della gip di Milano – ha commentato – è arrivata proprio nella settimana in cui si è tenuta l’udienza presso la Corte costituzionale sul caso di Massimiliano, aiutato con un’azione di disobbedienza civile da Chiara Lalli, Felicetta Maltese e me”. Il caso a cui Cappato fa riferimento affronta sempre la questione del trattamento di sostegno vitale: in questa vicenda, il paziente, Massimiliano, affetto da sclerosi multipla, era completamente dipendente dall’aiuto di terze persone, ma non da trattamenti di sostegno vitale in senso stretto.

Cappato: “La politica non vuole rispondere, Parlamento inerte”

La decisione della Consulta è attesa a breve. Ma a seguito di questa questione sollevata dalla gip di Milano, la Corte dovrà tornare su una fattispecie molto simile. E altri casi si profilano all’orizzonte. Oggi Martina Oppelli, una donna triestina tetraplegica e affetta da sclerosi multipla a cui l’Asl locale aveva negato l’accesso al suicidio medicalmente assistito, ha lanciato un nuovo appello: “Questa non è una battaglia di destra o sinistra. La vita e la dignità sono di tutti. Sono stanca. Chiedo solo pietà”, ha dichiarato. Laura Santi, triplegica, è un’altra donna che chiede da tempo la possibilità di accedere al suicidio assistito quando non avrà più la forza di sopportare la sua malattia.

A queste ultime due vicende ha fatto riferimento Marco Cappato in un altro commento alla decisione della gip di Milano: “La politica ufficiale non vuole rispondere: il Parlamento è rimasto inerte per oltre cinque anni e il governo si è costituito in giudizio per ottenere la nostra condanna. Le condizioni – diverse nella tipologia di trattamento, ma unite nella sofferenza e nella volontà – di Massimiliano, Laura SantiMartina Oppelli, Elena Altamira e Romano, e delle altre persone che abbiamo aiutato autodenunciandoci danno ora alla Corte costituzionale la possibilità di chiarire la portata applicativa di un diritto che la Corte stessa aveva già riconosciuto”.

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