Angelo Mangiante, ex tennista e ora giornalista di Sky Sport, è una delle voci del tennis in Italia. A Fanpage.it ha raccontato aneddoti e retroscena della sua carriera, con focus su Sinner: “Vi spiego perché piace a tutti”.

In pochi conoscono il tennis e le sue sfumature come Angelo Mangiante. Il giornalista, telecronista e volto noto di Sky Sport che celebra oggi una giornata dedicata al canale Sky Sport Tennis, ha un passato da giocatore (è entrato nei primi 700 del mondo), Maestro Federale e International Coach. Un bagaglio di esperienza che gli permette di essere sempre sul pezzo, anche oggi nel racconto delle imprese di Jannik Sinner e degli altri tennisti italiani.

Ai microfoni di Fanpage.it, Mangiante ha parlato del numero due della classifica mondiale e di quelle che sono le sue peculiarità in campo (“Agli avversari nasconde sempre le sue insicurezze e questo è un vantaggio) ma anche fuori. Un tennista che è unico proprio in quanto normale e che proprio per questo viene amato davvero da tutti, dai più ai meno giovani. Un’occasione per dire la propria anche su Nadal, Djokovic, Federer e sul momento del tennis attuale.

Angelo, tu hai avuto modo di conoscere Sinner anche lontano dai campi e dalle telecamere. È davvero così speciale?
“Sinner fuori dal campo a me personalmente piace ancora di più perché è un Sinner umile, con una spiccata cultura del lavoro, che dedica tutto se stesso all’allenamento. Un esempio di applicazione, concentrazione e sacrificio. Sinner che vince sul campo lo vediamo tutti, ma ci sono tanti che lo fanno. Lui però rappresenta un modello anche fuori dal campo”.

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Cosa hai pensato la prima volta che hai visto Jannik giocare? Qual è la qualità che ti ha colpito subito.
“La concentrazione, la sicurezza e la tranquillità che aveva in campo. Era diverso, l’avevo visto giocare per la prima volta al Foro Italico contro Musetti ed era un giocatore che avendo solo 17 anni non faceva trasparire emozioni. E questo è sempre stato un vantaggio, perché non mostra insicurezze all’avversario. Mi era piaciuta la sua capacità mentale, mi sembrava già un giocatore fatto. Si vedeva che dietro c’era un lavoro meraviglioso di Riccardo Piatti, perché allora era allenato da lui. Aveva una fluidità di gioco e una velocità di palla notevoli, pur avendo pochi muscoli”.

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C’è stato un episodio legato a Sinner che ti ha fatto pensare che fosse diverso dagli altri giocatori?
“Stando sul presente, per esempio, mi ha colpito il modo in cui lui è riuscito a capovolgere il match a Miami contro Griekspoor, interrotto per pioggia. Lì è riuscito a vincere la partita. Mi ha colpito per il modo in cui si è rimesso in discussione, perché stava perdendo perso il primo set ed era in difficoltà nel secondo. Ha chiesto condivisione di idee ai suoi allenatori, in quel momento ha accettato di essere guidato tatticamente dal coach e si vedeva proprio il viso di colui che avrebbe trovato una chiave per vincere. Mi colpisce la sua capacità analitica: anche nei momenti di grande difficoltà trova sempre il modo di superare i problemi”.

Tu sei un ex giocatore, un tecnico, un giornalista, un papà di un tennista in erba: chi meglio di te può spiegare il fenomeno Sinner, perché piace a tutti?
“Perché è l’amico che tutti vorremmo avere, il ragazzo della porta accanto che senza voler apparire come fenomeno si fa apprezzare per i valori. Purtroppo questa è una società che si dimentica di certi valori. Quando Sinner dice ‘attenzione ai social, non ne abusate, quella non è la vita reale’, è francamente quello che qualsiasi padre vorrebbe dire ai figli. Ma se lo dice un papà viene preso come uno anziano, di un’altra generazione. Se lo dice Sinner viene ascoltato”.

E viene ascoltato da tutti, perché è trasversale.
“Lui è amato da tutte le generazioni perché trasferisce qualcosa ai giovani, all’età di mezzo, e anche alla terza età, che rivede un ragazzo che ha ancora valori come l’educazione. Lui tiene l’ombrello alla raccattapalle se piove, da gentleman di una volta lo prende perché è giusto che l’uomo faccia sempre un passo indietro nei confronti di una donna. È un esempio meraviglioso e abbiamo la sensazione forte che non cambierà mai, perché lui è così”.

È difficile raccontare oggi il tennis? In poco tempo è passato dall’essere uno sport quasi di nicchia a quello del momento.
“Per me raccontare il tennis è la cosa più facile del mondo perché ho trascorso la mia vita su un campo da tennis. Ho iniziato a giocare a 10-12 anni e non ho mai smesso. È il mio mondo. Ho conosciuto l’aspetto bellissimo del tennis di essere uno sport elegante e individuale, in cui devi risolvere da solo i problemi. Non c’è una società come nel calcio, nel tennis devi organizzare tutto da solo nella fase di costruzione della tua carriera e cavartela da solo. Quella è una parte molto bella, intrigante e costruttiva. Trasmette, classe, educazione e rispetto degli avversari, con le partite che si chiudono con la stretta di mano. È anche uno sport durissimo, devastante da un punto di vista fisico e mentale. Essendoci passato, anche se a un livello inferiore, mi riesce naturale raccontarlo”.

A proposito del tennis tradizionale, si parla tanto della necessità di introdurre novità nel gioco. Pensi che ce ne sia bisogno?
“Qualche novità, se è funzionale, va bene. A Miami per esempio c’era la musica nei cambi di campo, secondo me ci sta perché rende tutto più divertente. Di fatto diventa quasi una discoteca all’aperto, ma poi rispetto massimo per la sacralità del gioco e silenzio totale. Questo non mi disturba, al contrario invece di soluzioni diverse sul regolamento come accorciare i set, portarli a 4 e così via. È come se nel calcio si decidesse di passare a partite di 60’: non si può cambiare la storia di uno sport radicalmente”.

A livello di giocatori oggi sono in aumento quelli “anticonformisti”, i “bad boys”?
“Se deve andare di moda dire che il tennis ha bisogno di bad boy, per esempio di un Rune che fa il giocatore un po’ border, dico no. Il tennis non ha bisogno di bad boy, ma di giocatori come Sinner, Nadal, Federer, ovvero campioni di correttezza e rispetto. Teniamoci stretta la sacralità del tennis nel modo più classico, perché questa resterà la sua forza e unicità nello sport”.

A proposito di Nadal, Federer e Djokovic: tu hai delle preferenze avendoli più volte visti da vicinissimo?
“Cerco sempre per natura di prendere la parte migliore dei campioni, secondo me insegna sempre tanto. Ho un rapporto confidenziale e sono più vicino a Nadal perché ho avuto modo di parlargli e conoscerlo di più. Lo considero un campione vero in campo e fuori, un ragazzo umile e straordinario. Valori che ho ritrovato poi anche in Sinner. Dei tre ho sempre avuto un immenso rispetto di Nadal. Mi piace la classe di Federer, mi piace il modo in cui si è sempre posto, l’eleganza e il rispetto degli avversari. Roger è irripetibile come fenomeno tecnico: nessuno giocherà mai bene come ha giocato lui”.

Djokovic invece è più divisivo, ma sempre grandissimo.
“Di Novak mi piace molto la capacità di aver lottato duramente, con un percorso difficile da bambino. Lui era uno che s’allenava aspettando che finissero i bombardamenti e ha vissuto la gavetta vera. È riuscito con il lavoro e la cura maniacale dei dettagli ad entrare nella scia dei due fenomeni Nadal e Federer. Il miracolo di Nole di quel terzetto lui è partito in ritardo, visto che all’inizio gli Slam li vincevano solo quei due. Alla fine li ha anche superati coronando una carriera strepitosa. Ognuno ha sempre trasmesso una cosa diversa dagli altri, ma sempre grandiosa”.

Hai avuto la fortuna di vedere e seguire tantissimi tennisti, qual è quello che ti ha impressionato di più e che forse non ha rispettato le aspettative?
“Ne ho visti tanti che pensavo diventassero fortissimi. Per esempio uno che mi piaceva, seguivo e speravo diventasse ancora più forte era Del Potro. Trasferiva emozioni, aveva un dritto terrificante, molto latino. Ero convinto che riuscisse ad inserirsi nel monopolio di Federer, Nadal e Djokovic. Probabilmente ce l’avrebbe fatta se non avesse avuto tanti infortuni. È stato penalizzato da questa fragilità fisica che ha avuto”.

Parliamo di te. Ti contraddistingui sempre per pacatezza, solarità e equilibrio. Quanto c’è della tua formazione tennistica in questo?
“È frutto dell’educazione che ti danno i genitori, proviene dall’ambiente in cui cresci. I miei mi hanno sempre insegnato il rispetto e la gentilezza, elementi fondamentali per rapportarti con il mondo. Poi crescendo ho capito di avere una grande fortuna, ovvero di venire dallo sport e di poter raccontare lo sport. Mi sono sempre impegnato a raccontarlo seriamente, come merita chi ascolta. Noi abbiamo una responsabilità, quella di non dover rappresentate degli interessi che uno può avere su un giocatore o su un altro, su un evento o un altro. Dobbiamo essere semplicemente noi stessi: se ci si aggrappa alla propria onestà professionale non c’è bisogno di sentire il timore di tranelli o errori di comunicazione. Sono quello che vedete e non interpreto nessuna parte. Sinner è così, ed è quello che mi piace. Lui non interpreta nessun ruolo e sarà sempre così. Sarà sempre la sua forza in campo e fuori. Se riesci a metterla sul lavoro ti aiuta tantissimo”.

Chiudiamo con una nota di colore: qual è l’episodio più curioso che ti è capitato?
“Risale a quando giocavo e lo ricorderò sempre. Avevo perso all’ultimo turno di qualificazione di un torneo ATP a Sofia in Bulgaria. Ero il primo Lucky loser in caso di forfait in tabellone. Eravamo tre italiani, c’era Alessandro De Minicis e Massimo Cerro. Dormivamo insieme, vivendo quel mese di tornei nei Paesi dell’Est. Ci fu un acquazzone che rimandò gli incontri e Massimo Cerro, che era in tabellone, vide i campi allagati, prese la bicicletta e andò a fare un giro per la città. Nel giro di poco però uscì improvvisamente il sole e in tre quarti d’ora asciugarono tutti i campi per far giocare le partite. Una cosa inimmaginabile. Il giudice arbitro chiamò Cerro in campo, ma Cerro non c’era”.

Posso già immaginare come sia andata a finire.
“All’epoca non c’erano telefonini e non sapevamo come avvertirlo. Disperati, lo cercammo dappertutto. Il supervisor ci disse che se non fosse entrato lui sarebbe toccato al primo Lucky Loser che ero io, altrimenti sarebbe entrato in campo il secondo che era un tedesco. Se non avessi accettato avrei perso il premio in denaro e l’ospitalità, quindi a quel punto – pur dispiaciutissimo per il mio amico – dovetti rendermi disponibile. Mi mandarono in campo, iniziai a palleggiare e poi via. Primo 15 del match e sento uno che urla fuori dal circolo: era Cerro che tornava a tutta velocità con la bicicletta. Troppo tardi però, perché avevo iniziato. Ma in quel momento ho capito la fugacità della vita. Può succedere sempre di tutto”.

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