Dal nostro corrispondente

NEW DELHI – Non è raro che in questa stagione sulle piste d’atterraggio degli aeroporti la visibilità sia meno che ottimale. Ma ieri mattina la foschia tossica che da giorni avvolge Delhi era talmente densa e fitta da essere ben visibile fin dentro i terminal dell’Indira Gandhi International. Colpa della concentrazione di inquinanti più alta mai registrata nel 2024: oltre 1.800 punti sull’Air quality index stilato dalla società svizzera IQAir, un dato spaventoso se pensiamo che superare i 150 punti è considerato «dannoso», andare sopra i 200 «molto dannoso», e sfondare i 300 «pericoloso» per la salute. È così che lunedì mattina New Delhi è diventata – per distacco – la città più inquinata del pianeta. Sette volte di più della seconda in classifica – Lahore, in Pakistan – e 18 volte più di Milano. Quanti ai limiti fissati dall’organizzazione mondiale della sanità siamo, a seconda dei quartieri della capitale, dalle 50 alle 60 volte oltre i massimi consentiti.

I provvedimenti

Una situazione spaventosa che si ripete – solitamente con un leggero peggioramento – ogni anno, quando al mese di novembre il sole diventa un disco pallido, gli occhi e la gola bruciano e ovunque, dalle foglie degli alberi ai polmoni dei 33 milioni di abitanti di questa megalopoli, si poggia uno strato di pericolose polveri sottili. Come ogni anno, dopo mesi a ignorare le radici del problema, la politica finge di correre ai ripari. Ieri la gran parte delle scuole è rimasta chiusa, i cantieri sono stati bloccati e molti dei vetusti camion che ogni notte intasano le arterie che collegano Delhi agli Stati circostanti sono rimasti fermi. Mosse tardive che sembrano pensate soprattutto per dare la sensazione che il problema venga affrontato e che colpiscono gli strati più vulnerabili della popolazione – come i bambini chiusi in casa e la manovalanza pagata a giornata dei cantieri – facendo poco o nulla per migliorare la situazione.

India, scuole chiuse e invito a non uscire di casa per inquinamento

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Le cause

Le ragioni dietro lo stagionale tracollo della qualità dell’aria di Delhi sono note. Ogni anno in autunno in tre Stati a forte vocazione agricola confinanti con la capitale – Punjab, Haryana e Uttar Pradesh – vengono dati alle fiamme i resti del raccolto appena fatto. Si tratta per lo più di riso, preferito ad altre coltivazioni più adatte al clima e il terreno del nord dell’India, perché comprato a prezzo garantito dallo Stato. Il problema è che in molte delle zone innaturalmente coltivate a riso il consumo di acqua non è più sostenibile da anni, ragion per cui i governi locali impongono dei calendari per la semina che servono a ridurre i consumi idrici, ma finiscono per incentivare la bruciatura delle paglie. Lo stagionale calo delle temperature imprigiona i fumi all’altezza del terreno e il vento fa il resto, spostandoli in tutta la piana gangetica, Delhi inclusa.

Secondo Safar, un’agenzia governativa, in questo momento i roghi agricoli stanno contribuendo per un buon 40% all’inquinamento della città. Nella sola giornata di domenica, i satelliti del Consortium for research on Agroecosystem Monitoring and Modeling from Space ne hanno rilevati 1.334 in sei Stati del Paese. Un problema ciclico che va a sommarsi a un quadro che non è mai facile, se non durante la stagione monsonica, quando le piogge abbattono le polveri generate dal traffico veicolare, dai molti cantieri sparsi per la città, da strade polverose e non mantenute e dalle 11 centrali elettriche a carbone che circondano la capitale indiana.

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